Disturbi alimentari: un summer camp per superare insieme la paura di “quel” boccone

«Per cinque giorni mi sono sentita al riparo da osservazioni non richieste, domande scomode e sguardi invadenti. Delle mie compagne di viaggio porto a casa i loro sguardi immensi, pieni di parole sospese e di lacrime, non sempre versate, che nascondono un dolore incomprensibile ai più; ma anche i sorrisi di coraggio, le urla liberatorie, le canzoni e i balli improvvisati, che ci hanno ricordato cos’è il divertimento, quello autentico e leggero»: con queste parole Ilaria, 32 anni, racconta ciò che è stato per lei il Summer Camp di Animenta, che si è svolto dal 6 al 10 agosto a Montefalcone nel Sannio, in Molise. Cinque giorni intensi, vissuti insieme, da persone di diverse età, provenienze e interessi, ma accomunate da un’esperienza complessa: il disturbo alimentare.
L’idea nasce dall’associazione Animenta, voluta e fondata da Aurora Caporossi, che a 16 anni ha sofferto di anoressia nervosa e sa bene cosa significhi non sentirsi capiti, presi sul serio, sostenuti. Per questo, a 24 anni, dopo un lungo e faticoso percorso che l’ha portata a riconoscere e affrontare il suo problema, ha dato vita ad Animenta: «Perché so che significa quando parli e nessuno ti ascolta», spiega – Perché troppo spesso il disturbo alimentare è considerato un “capriccio” o poco più. Ma soffrirne significa perdersi e difficilmente ritrovarsi. È non avere il controllo su stessi perché è lui che controlla te. È odiare il proprio corpo, così tanto da nutrirlo fino allo sfinimento, riempiendolo con ciò di cui lui non avrà realmente bisogno. Ed è una guerra fatta di continue battaglie contro se stessi, in cui nella maggior parte dei casi ne esci sconfitto, perdendo ogni volta una parte di te, fino ad arrivare a non riconoscere più chi sei».
Animenta è nata nel 2021, in piena pandemia, «proprio dalla necessità di creare una nuova narrazione e nuovi luoghi di cura per chi soffre di questi disturbi – spiega ancora Caporossi – Oggi siamo una grande realtà a livello nazionale ed europeo e mettiamo in campo una serie di attività: dalla prevenzione a scuola (in quattro anni abbiamo raggiunto oltre 40 mila ragazzi e ragazze) fino ai campi estivi, nati lo scorso anno con l’idea di aiutare queste persone a riscoprirsi a livello sociale, attraverso un’attività di gruppo e un’esperienza comunitaria».

I campi nascono anche dalla consapevolezza di quanto proprio l’estate sia un momento particolarmente difficile per chi soffre di disturbi del comportamento alimentare: «Non è facile vivere accanto a chi ha questo problema, per cui spesso gli amici si allontanano. È difficile organizzare una vacanza anche semplice, un po’ perché non si ha nessuno con cui farlo, un po’ per colpa dell’ossessivo controllo sul cibo e sul peso». Il campo è quindi anche l’occasione per vivere un pezzo d’estate insieme, condividendo il problema comune, ma mettendo sempre al centro la persona, con le sue qualità e le sue potenzialità. «Lavoriamo sulla riscoperta della persona oltre la malattia – spiega Caporossi – servendoci di una serie di strumenti: dal laboratorio teatrale alla fabbricazione del cesto di vimini, tutte le attività hanno l’obiettivo di ridurre quell’ossessione che non lascia mai in pace chi ha un disturbo alimentare. Esploriamo insieme differenti forme di espressione di sé e del proprio dolore, per comprendere da un lato che il proprio dolore è valido, dall’altro che la malattia non definisce e non esaurisce la persona. Durante i campi, vogliamo fornire ai partecipanti una “cassetta degli attrezzi” che li accompagni lungo il percorso e che possano utilizzare nei momenti più difficili».
Il campo non è un percorso di cura, ma vuole inserirsi al suo interno: per questo, la partecipazione avviene con l’approvazione del medico curante e dopo un incontro con tutta l’equipe. Nelle giornate del campo, naturalmente, un’attenzione particolare è dedicata al cibo, con un colloquio nutrizionale giornaliero e una vera catena di montaggio nella preparazione dei pasti. «Sappiamo quanto è e può essere complesso il rapporto con il cibo per una persona che soffre di disturbi del comportamento alimentare – spiega Elisabetta Abate, dietista e formatrice – Qui, insieme, creando un ambiente sicuro facciamo in modo che le persone riescano ad andare oltre la malattia e il focus sul cibo, riscoprendo la vita».
Il campo si è concluso il 10 agosto: «Quest’anno erano tutte ragazze e una ragazza in transizione – riferisce Caporossi – Inizialmente alcune era spaventate, più di una ci ha detto che in treno, mentre veniva, ha avuto la tentazione di scendere e tornare indietro. Invece, sono rimaste tutte fino alla fine, ci hanno salutato ringraziandoci per questa esperienza, qualcuna stavolta un po’ spaventata dall’idea di dover uscire da questa piccola grande bolla rassicurante che si crea durante il campo. Sicuramente, sono tornate tutte a casa un po’ più forti di quando erano arrivate».
Lo dimostra la testimonianza di Ilaria, che è appena rientrata dal campo: «Le attività e i laboratori del camp ci hanno messe nelle condizioni di dare liberamente voce a pensieri, dolori e sensazioni che quasi mai mi sono concessa di esternare per la paura di non essere realmente compresa o, peggio ancora, di essere fraintesa – racconta – Torno a casa con una consapevolezza diversa della mia storia, perché il confronto con le storie degli altri mi ha dato l’opportunità di realizzare che il mio disagio non è una colpa, non è un capriccio e non è egoismo, ma è una patologia che esprime un disagio dell’anima che non ha nulla a che vedere con l’aspetto fisico, il cibo o la voglia di apparire in un certo modo. Pertanto, come ogni altra malattia, fisica o mentale, necessita di cure specifiche, di attenzioni e, quando occorre, di uno sforzo di sensibilità. Sarò grata per la vita a tutte le belle persone che, in questo viaggio, mi hanno fatto capire che io ho il potere di vedere il bello, il bene e l’amore nell’imprevedibilità della vita».È quanto mette in luce anche Laura Montanari, psicologa e vicepresidente di Animenta: «Il camp è un’occasione per riscoprirsi oltre la malattia. Forse per la prima volta le persone si guardano a partire dalle risorse, e non dalle mancanze, che hanno e questo dà loro la possibilità di vedersi, sentirsi, conoscersi in un modo diverso. Sono questi i primi passi verso la guarigione».
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